lunedì 5 maggio 2008

Amazonas- Onibus 604

RACCONTI PER RIFLETTERE di Andrea LOMBARDI

Manaus, 19 Novembre 2007. Mi trovo alla fermata dell’autobus vicino il centro della città e come solito questa straripa di passeggeri in attesa del numero di bus che contraddistingue il bairro dove devono recarsi. Quando questo arriva, la folla s’accalca all’ingresso con la foga di chi si vuol sedere per primo poiché sa che la strada da percorrere non sarà poca: Manaus, capitale dello stato Brasiliano Amazonas, si estende per una distanza quasi pari a cento chilometri.

Il mio numero è 604. Queste tre cifre rappresentano il codice che identifica l’area attraversata dalla corriera: la prima cifra si riferisce al bairro (un enorme quartiere) o alla colonia (un insediamento fuori città), le restanti due riguardano il punto specifico dove scendere. La numerazione parte da 0 e arriva fino a 900: è una rete di comunicazione stradale impressionante quasi quanto l’effetto che suscita Manaus arrivando di notte con l’aereo: una distesa di luci che non ha fine per i comuni occhi, che parte dalla luminaria pubblica color verde-oro del Teatro Amazonas fin l’ultima lucerna al cherosene che carezza l’incomincio dell’oscura selva.

La mia destinazione dista dal centro circa un’ora di curve, scossoni e balzi. La maggior parte delle volte il bus è pieno e bisogna fare il tragitto in piedi, spalla a spalla come se ci trovassimo in un qualsiasi autobus dell’america latina più povera. Durante il percorso capita d’incontrare dei personaggi singolari che lentamente si siedono sopra i sedili rossi, quelli riservati agli anziani, disabili e donne gravide. I loro volti hanno la pelle molto tirata che sembra di gomma, normalmente portano gli occhiali e cercano in tutti i modi di nascondere le mani. Non ti guardano mai diritto negli occhi, fanno mezzi sorrisi a testa bassa e tacciono finché non li vedi scendere: è la mia stessa fermata! Così capisco tutto. Gli faccio anch’io un mezzo riso ed insieme ci incamminiamo verso la nostra meta: l’autobus 604 è l’unico che sbarca alla Colonia Antonio Aleixo e la fermata è quella dell’Ospedale Alberto Rocha, il Lebbrosario di Manaus.

Quella pelle stirata e secca è data dall’inadeguato afflusso di sangue e di ossigeno ai nervi facciali; il nascondersi le mani era per non far si che altri vedessero la mancanza delle dita, imputridite e cadute tempi orsono a causa della lebbra. Il morbo di Hansen piano piano devitalizza tutto l’apparato muscolare, articolare, respiratorio e rende le appendici esterne del corpo, le più colpite da un mancato rifornimento di sangue ed ossigeno, prima insensibili al tatto, poi talmente secche che cedono alla forza della gravità e si staccano come morte foglie fuori stagione. Se no ci fosse la lebbra queste foglie sarebbero state verdi e fiorenti in quanto la stagione della vecchiaia sarebbe stata ancora lontana, ma la mancanza di igiene, prevenzione e di un vaccino che debelli questa malattia ha fatto si che l’autunno arrivasse molto presto, accompagnato dalla discriminazione e dalla solitudine di queste anime.
Il monito è sempre lo stesso: la lebbra non porta lucro alle case farmaceutiche ed i fondi per lo sviluppo vengono investiti nella ricerca di nuove “pozioni magiche” per perdere chili e cellulite, raddrizzare seni e spianare rughe di chi nacque nel posto giusto ed ora può spendere soldoni per rallentare l’avvento dell’avverso autunno: gentili signore, mi spiace, ma questa stagione, volente o nolente, arriverà per tutti!

Entriamo dentro l’ospedale, saluto Pedro e Antonio che son vicini di letto nello stesso padiglione. Abbraccio Valçemar e lo rallegro perché le ferite si stanno rimarginando. Incrocio l’infermiera, mi invita a pranzare con loro: oggi c’è riso e fagioli. Rido pensando dentro me “che strazio, tutti i giorni mangio riso e fagioli, oggi non pranzo!”.
<> le rispondo e proseguo con le visite. Voglio andare a trovare Joaquim che ultimamente era peggiorato: colto dalla malattia all’età di 17 anni, Joaquim ha sempre vissuto all’interno della colonia; era un ragazzo con braccia forti, un metro e settanta di altezza per settanta chili di peso e da molti anni, a causa l’indebolimento procurato dalla lebbra, è affetto da osteoporosi. La sua massa muscolare è talmente diminuita da renderlo alto 1,50 per 42 chili.
Entro nello stanzone che condivide con altri cinque internati, c’è un ragazzone seduto accanto il suo letto e lentamente m’avvicino <> - <>.

• Nel momento in cui mi sedetti, la mia giornata divenne tristissima.

Francisco ha il braccio fasciato e legato al collo con un panno bianco lievemente macchiato di sangue sull’avambraccio. Joaquim mi dice che suo figlio ha avuto una rissa in strada con un altro ragazzo, erano ambedue ubriachi e dopo una breve colluttazione, il tizio estrasse dal retro dei pantaloni una pistola di piccolo calibro, e sparò. Fortunatamente la pallottola gli sfiorò l’avambraccio così riuscì a fuggire… però ora Francisco, un ventenne che vive solo, è perseguitato giorno e notte. Il padre, con le lacrime che colorano di grigio un volto esausto, mi osserva taciturno profumando l’ambiente di quel triste silenzio di quando non sai cosa dire e poi inizia a vomitare senza tregua tutto ciò che sentiva in quel momento:
<>. Francisco lo osserva piangere senza che nessuna di quelle lacrime scalfisse la sua persone, dura come quella di coloro che quotidianamente lottano in strada.

• Con la testa china mi alzai, chiesi perdono e me ne andai.

Ogni singola lacrima era un coltello che raschiava il mio cuore e dolorosamente lo canzonava dicendomi <>. Non lo so, probabilmente è impossibile capire in pieno ciò che Joaquim ha sofferto in vita, però posso dirvi che, nel momento in cui mi sedetti vicino lui e suo figlio, i miei occhi guardarono con ancor più rispetto il cibo in tavola, il prossimo, l’indomani ed in particolare, i sogni: noi che possiamo esaudirli.

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